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FONDI PENSIONE, LE OCCASIONI MANCATE A 10 ANNI DALLA RIFORMA DEL TFR

NewSintesi e Rassegna Stampa | 12 Giugno 2017 | 0

Il check sullo stato di salute del settore della previdenza complementare che anche quest’anno propone la Covip, ci consegna una situazione abbastanza simile a quella degli anni precedenti, con qualche elemento di moderata novità. E ciò non può valutarsi positivamente visto che a venti anni dalla prima regolazione normativa e a 10 anni dall’operatività dei fondi “nuova generazione” il quadro del settore è abbastanza deludente rispetto alle aspettative che vi erano riposte.

 

L’affinamento delle modalità di elaborazione dei dati della Covip, ci consente di valutare più correttamente il livello delle adesioni ai fondi. Risultano iscritti circa 7 milioni e 800 mila lavoratori, pari al 27,8% degli occupati. L’incremento di iscritti del 2016 è stato del 7,6% da considerarsi un discreto risultato, e molto concentrato sulle adesione ai piani individuali (PIP) piuttosto che sui fondi negoziali. Ma più di 600 mila persone sono iscritti a più fondi, quindi i soggetti effettivamente aderenti sono attorno a 7 milioni e centomila. Il dato delle adesioni diventa meno roseo se si considera un elemento che spesso non viene valutato adeguatamente: molti lavoratori una volta iscritti ai fondi smettono di contribuire. Il livello di tali “rinunce” è molto alto: era di un milione di iscritti nel 2010 e si raddoppia nel 2016 raggiungendo quasi i due milioni di iscritti. La Covip quindi evidenzia che gli iscritti attivi scendono dai 7 milioni e 800 mila a 5 milioni e 800 mila, e che il quadro delle adesioni è in parte condizionato dalle adesioni “contrattuali” come quelle del settore degli edili, alle quali però corrispondono versamenti irrisori.

 

A fronte di questi dati non proprio positivi, vi è una dinamica dei rendimenti abbastanza soddisfacente (anche in relazione alla situazione internazionale dei tassi) che varia dal 3,4% dei fondi negoziali al 3% dei Pip, comunque superiore al rendimento del Tfr (2,2%).

 

Molti osservatori, alla luce del quadro che emerge considerano la situazione complessiva della previdenza complementare in Italia “deludente” nella sua capacità di “appeal” su una platea che si ritenga avere crescenti bisogni di copertura previdenziale. E’ su questo punto che occorre forse una riflessione più adeguata. Il relativo basso successo di queste forme previdenziali non va cercato nella struttura della domanda, che si rappresenta spesso come “ignorante” dei suoi stessi bisogni previdenziali e di risparmio, quanto piuttosto nella struttura dell’“offerta” e cioè nelle specifiche caratteristiche dei fondi pensione italiani, nella struttura dei prodotti che offrono, nella loro capacità di intercettare veramente le esigenze di “nuovo welfare” che emergono anche dalle giovani generazioni. A venti anni di distanza dalla nuova regolazione dei fondi, serve una riflessione attenta e sincera sulle ragioni del “rachitismo” di questo settore. Nessun artificio di “adesioni obbligatorie” esplicite o nascoste può risolvere il problema nell’offerta ed anche nelle forme di regolazione legislative e dei fondi che si sono costruite, che hanno impedito di raggiungere gli obiettivi che ci si poneva circa venti anni fa quando è stato costruito il nuovo quadro regolatorio.

 

Li possiamo sintetizzare così: la prima è stata la necessità di dare una copertura previdenziale integrativa alle fasce del mondo del lavoro con più deboli garanzie previdenziali pubbliche; ma queste coincidono con i giovani, i lavoratori a più bassa retribuzione e con discontinuità del lavoro, ma non sono queste le fasce che aderiscono alla previdenza complementare, avendo più problemi di reddito attuale che di risparmio futuro; la seconda è stata quella di costruire nuovi investitori istituzionali in grado di veicolare sul sistema delle imprese e delle istituzioni nazionali in modo più efficiente il risparmio degli stessi lavoratori e delle stesse imprese. La relazione della Covip ci dice come tale obiettivo sia stato largamente mancato: complessivamente fondi pensione e casse professionali investono in Italia solo il 37% delle loro attività, mentre circa 120 miliardi, il 63% è collocato in attività estere. E dei 71 miliardi investiti in Italia solo 7,2 miliardi, pari al 3,7% di tutti gli investimenti è destinata alle imprese.

 

Il confronto con gli altri paese Ocse è significativo: i fondi pensione negli altri paesi hanno percentuali di investimenti domestici attorno al 66 per cento. Ma l’elemento sul quel riflettere è anche un altro: in Italia la maggior parte della contribuzione ai fondi deriva dal Tfr, una forma di liquidità a disposizione delle imprese che diventa contributo al fondo pensione. Ebbene, la Covip calcola che in 10 anni circa 50 miliardi di Tfr, prima nella disponibilità delle imprese, sia confluito nei fondi pensione; a fronte di questo flusso si può stimare che solo attorno ai 7 miliardi sia stata la quota di finanziamento destinata delle imprese italiane. Si può dire che la previdenza integrativa “all’italiana” abbia contribuito a ridurre piuttosto che ad aumentare le liquidità aziendali proprio negli anni della crisi.

 

Ma lo stesso obiettivo della copertura previdenziale aggiuntiva è stato scarsamente raggiunto: la parte delle prestazioni dei fondi destinati effettivamente ad alimentare trasferimenti pensionistici “integrativi” è nei fondi pensione largamente minoritaria (circa 700 milioni) rispetto alla parte crescente destinata a finanziare le anticipazioni o i riscatti (circa 3,6 miliardi). In definitiva gli stessi iscritti ai fondi hanno utilizzato il capitale maturato più come una forma di risparmio al quale ricorrere per specifiche esigenze particolari che per avere a disposizione piani previdenziali di lungo termine.

FONTE IL SOLE 24 ORE

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