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Perissinotto: ecco la mia verità su Generali, soci e investimenti

22 Febbraio 2014

«I soldi che ho guadagnato con il mio lavoro li investo in economia reale: aziende. Voglio creare un piccolo gruppo specializzato nel made in Italy e quotarlo in Borsa. La prima acquisizione è stata la Driade, mobili di design».

 

«I soldi che ho guadagnato con il mio lavoro li investo in economia reale: aziende. Voglio creare un piccolo gruppo specializzato nel made in Italy e quotarlo in Borsa. La prima acquisizione è stata la Driade, mobili di design». Giovanni Perissinotto risponde così alla domanda sui «famosi» 11 milioni lordi ricevuti quando, nell’estate 2012, è stato rimosso dalla guida di Generali e sostituito con Mario Greco. Il board del Leone nei giorni scorsi ha deliberato di agire contro di lui e l’ex direttore generale Raffaele Agrusti per risarcimento danni e ottenere in primo luogo il recupero delle somme pagate (nel caso dell’ex group ceo) o concordate.
Teme o no per la sua liquidazione?
«Ho lavorato in Generali per trent’anni, 11 come amministratore delegato. Sono convinto di aver sempre agito correttamente».
Però le vengono attribuite irregolarità procedurali non di poco conto.
«Come le ho detto, ritengo di aver sempre operato correttamente e nell’ambito delle mie deleghe, che si differenziavano molto tra fondi propri e riserve tecniche, non si riferivano per molti mandati a società controllate e che comunque hanno subito variazioni nel corso degli anni. Di tutte le operazioni realizzate mi assumo la piena responsabilità perché questo deve fare un capoazienda. Le Generali hanno 400 miliardi di asset investiti e io ho seguito sempre i maggiori dossier, coinvolgendo i vari uffici della compagnia e accogliendo le loro indicazioni. In media ogni anno fra rimborsi e flussi di danaro fresco si gestivano oltre 50 miliardi. Se ci sono stati errori non sono stati di certo voluti. Poi va anche sottolineato un dato di fatto che, mi sembra, la dica lunga: dopo aver messo al setaccio gli 11 anni di mio operato sono stati identificati come capo d’accusa sette “investimenti alternativi” di importo marginale rispetto al portafoglio investito».
Sta minimizzando: a fronte di quei sette investimenti sono stati iscritti a bilancio 234 milioni di perdite o accantonamenti.
«Senta, non mi sono portato via carte quando sono uscito da Generali. E non so come a questo fine siano state “smontate” le sette operazioni. Posso però dirle che sulla vendita di Save la compagnia ha ricavato un utile e le obbligazioni Finint sono state rimborsate alla pari».
A proposito di Finint, la finanziaria di Marchi e De Vido, buona parte dei sette investimenti coinvolgono soci veneti di Generali a lei vicini, come Finint o Palladio. E ciò ha alimentato il sospetto di un “nocciolo” amico.
«Allora, da una parte ci sono azionisti che vanno dal maggiore, Mediobanca, ai vari Caltagirone o De Agostini, che contano complessivamente per almeno un 25%: e io avrei tentato di creare e contrapporre dall’altra un personale nocciolo del 2-3%? Ma questo non è un sospetto: è fanta-finanza».
Sa bene che non sarebbe il primo caso.
«No, è pura fantasia. Detto questo mi dispiace sia stata venduta la quota in Save: si tratta di un investimento nel territorio che rientra per logica e redditività nel profilo di un investitore istituzionale. Così come nello stesso profilo possono trovare spazio i 50 milioni a Davide Serra di cui non voglio attribuirmi il merito dato che sono stati decisi dalla nuova gestione. Quel che è ingiusto è guardare a un investimento ex post. Perché così facendo potrei chiedere: è stata buona cosa vendere 10 miliardi di Btp e perdere praticamente tutto in Rcs non partecipando all’aumento?».
Lei per primo ha parlato di uscita dal patto Rcs.
«Certo, ma il patto è una cosa, un aumento che ti azzera è un’altra».
Comunque le accuse non muovono da utili o perdite, bensì da irregolarità.
«Ma il consiglio non ha approvato in prima istanza l’azione di responsabilità e poi ha deliberato un’azione in sede giuslavorista perché “più efficace e rapida”: due anni dopo».
È stata l’Ivass a chiedere di rivedere la prima decisione.
«Si era parlato anche di pressioni Consob, che ha smentito. E comunque con tutto ciò che è uscito l’Ivass non poteva che consigliare un secondo passaggio. Però non c’è stata azione di responsabilità».
Anche, si è detto, per evitare passi come l’assemblea, con i rischi reputazionali.
«Perché, tutto il fango che è uscito su di me e Agrusti la reputazione l’ha favorita?».
È stata fatta un’asset review globale e un esito è il dossier che ha portato alla causa. Un altro è stata la segnalazione di Consob alla Procura.
«A parte il fatto che nessuno da Generali mi ha contattato per discuterne, vogliamo anche dire che dalle dismissioni effettuate la compagnia ha guadagnato oltre un miliardo? E che l’opzione a Praga è stata esercitata anticipatamente perché l’operazione, tanto criticata in passato, si è rivelata altamente profittevole? Però di fronte a tutto ciò ci si concentra su operazioni marginali».
Come se lo spiega?
«Forse perché si parte dal principio che tutto ciò che è legato alla vecchia gestione non va bene».
Quando lei è uscito il titolo era ai minimi storici, a 8 euro.
«C’erano continui flussi di vendita, che andrebbero guardati bene ma che sicuramente risentivano del rischio Italia con lo spread a 440 punti. Lei mi dirà: oggi le azioni Generali valgono il doppio. Bene, anche quelle di Axa e Allianz. E sa cosa le dico da azionista Generali, proprietario di 100 mila titoli comprati con i miei soldi senza stock option?».
Che vende per investire nel suo progetto?
«No, che in Generali io continuo a crederci. Bisogna però guardare avanti, salvaguardandone il vero goodwill, rappresentato da riservatezza, solidità e dalla possibilità per le risorse interne di salire ai vertici su base meritocratica. È una caratteristica fondamentale delle grandi corporation» .

FONTE CORRIERE DELLA SERA