Un po’ come per il settore automobilistico anche nella previdenza la rottamazione conviene. In particolare nel settore dei Piani pensionistici individuali (Pip) cambiare modello, passando a una versione più recente, consente di ottenere migliori prestazioni.
Un po’ come per il settore automobilistico anche nella previdenza la rottamazione conviene. In particolare nel settore dei Piani pensionistici individuali (Pip) cambiare modello, passando a una versione più recente, consente di ottenere migliori prestazioni. Non solo per la maggiore efficienza (i costi sono meno elevati e dunque si fornisce maggiore benzina per la pensione di scorta) ma ci sono anche altri vantaggi. I nuovi «modelli» sono più sicuri e trasparenti (ci sono nuove regole in vigore dal 2007 che tutelano maggiormente i pensionati futuri): le «gestioni separate» a cui si agganciano i cosiddetti nuovi Pip godono, per esempio, di un’autonomia e separatezza patrimoniale (ai sensi dell’articolo 2117 codice civile) che risulta un ottimo «airbag» di fronte a eventuali «incidenti» di percorso: in caso di crack della compagnia assicurativa gli iscritti a forme di previdenza complementare “adeguate” alla riforma del 2005 sono più tutelati non essendo tale patrimonio distraibile al fine previdenziale. Da non scartare poi il fatto che ai Pip nuovi si può conferire anche il Tfr e il «bagagliaio» per contenere il montante delle future pensioni risulta dunque più capiente. Più flessibilità è prevista anche in uscita: in determinati casi si può riscattare la posizione e, dopo otto anni di permanenza, si può chiedere anche un’anticipazione fino al 30% della posizione, senza dare particolari giustificazioni. Possibilità preclusa ai prodotti preistorici che sono ancora legati al vecchio decreto 124/93. Senza contare che c’è la possibilità di trasferirsi verso altre forme (come i più economici fondi pensione).
Eppure se gli italiani risultano solerti a partecipare alle campagne di rottamazione delle auto, sono più pigri a muoversi e a rinnovare le proprie scelte nella previdenza. I dati parlano chiaro: nonostante le forme di prima generazione (ante 2007) siano molto meno convenienti con costi fuori controllo (anche pari al 7%-8% sul premio versato), a circa sette anni dal «big bang» che ha rivoluzionato il settore – grazie alla legge 252/2005 entrata in vigore dal 2007 – solo il 40% degli 880mila aderenti ai Pip “vecchi” ha deciso di cambiare. Oggi infatti gli italiani che hanno nel cassetto ancora un «vecchio» contratto sono 534mila e nel 2013 solo 816 iscritti li hanno abbandonati. Questi dinosauri previdenziali, pur non potendo essere più venduti, vengono ancora alimentati tanto che, nonostante il calo degli iscritti, le risorse destinate alle prestazioni sono salite da 4,8 miliardi di fine 2006 agli attuali 6,2 miliardi.
Per spiegare meglio il problema bisogna fare un passo indietro. Attualmente in Italia esistono tre tipi di prodotti assicurativi previdenziali, che restano fiscalmente comunque tutti deducibili nel medesimo modo: fino a 5.164,57 euro all’anno. La prima generazione è quella collocata dal 2001 fino all’entrate in vigore della circolare Isvap 551 del 2005. Questi prodotti sono mediamente molto più cari e non spesso non restituiscono i caricamenti incassati con il preconto.
La seconda generazione nasce dopo la circolare Isvap 551/2005 che ha fatto più chiarezza: ha introdotto il concetto di costo percentuale medio annuo, antesignano dell’Isc (indicatore sintetico di costo) in modo che sia contrattualmente visibile il costo trattenuto dalla compagnia e, soprattutto, ha previsto l’obbligo di non far gravare sull’iscritto il preconto provvigionale. Ma la vera rivoluzione è stata realizzata con i Pip di terza generazione, quelli successivi alla riforma 252/2005: per considerarli prodotti previdenziali sono stati introdotti dei presidi di tutela e di trasparenza molto più severi rendendoli dei prodotti più efficienti.
Vista la convenienza dei Pip e soprattutto dei fondi pensione «nuovi» come mai solo il 40% ha cambiato? Qui le colpe sono di più soggetti. Non solo delle compagnie assicurative che, a differenza dei colossi automobilistici, hanno tutto l’interesse a guadagnare sui vecchi modelli dotati di maggiori margini. Ma anche del legislatore. Se le auto vecchie e inquinanti vengono bloccate dai Comuni più lungimiranti, anche nel settore previdenziale bisognava stabilire un fermo con l’«obbligo di rottamazione» per tutelare coloro che viaggiano su veicoli che conducono a una riduzione drastica della pensione di scorta. Non bisogna dimenticare infatti che, come ricorda la stessa Covip, su un periodo di partecipazione di 35 anni, e a parità di rendimenti della forma prescelta, l’1% in più di costo annuo trattenuto corrisponde a un abbattimento della prestazione finale di quasi il 20%, se la maggiorazione sale al 2,5% annuo la prestazione si riduce di un terzo.
FONTE IL SOLE 24 ORE